Intro

Era passato un lustro da quando alcuni di loro avevano vissuto l’avventura con i Vorzhul. Da allora, molte cose erano cambiate, e molti avevano scelto strade diverse. Questa nuova storia cominciava in un luogo cupo, dove la folla si mescolava alla desolazione e la sete di giustizia si confondeva con la vendetta. Qui, la compassione era solo una scusa per gettare una moneta fuori da un tempio e lavarsi la coscienza. Volti induriti dall’insofferenza e da una fede vacillante animavano le strade, in un mondo dove l’indifferenza e la violenza sembravano aver preso il sopravvento.

Le persone “per bene”? Oh, erano quelle che sputavano e inveivano contro i condannati al patibolo, proprio come facevano con alcuni di loro. Nessuno si curava del loro destino, e il suono ritmico dei martelli che battevano sulle assi bagnate e scure al centro della piazza era solo un altro segnale della loro condanna imminente. La forca era quasi pronta, destinata ad accogliere i loro corpi all’alba.

Ma non tutti erano chiusi in una cella. La Duchessa di Valdinieve, una figura che conoscevano bene, aveva organizzato una cena in onore di alcuni di loro. Attraversando i vicoli della città, tagliati da un vento autunnale gelido, si dirigevano verso la sua dimora. L’unico suono che li accompagnava, oltre al fruscio delle foglie, era il martellare incessante dei lavoratori intenti a completare la forca.

La cena con la duchessa

La sala da pranzo era calda e accogliente, e una zuppa piccante seguita da un tenero fagiano attendevano i commensali. La Duchessa, una donna anziana ornata d’oro e tessuti pregiati, li accolse con un sorriso meno caloroso del solito. Dopo i convenevoli, la sua voce ruppe l’atmosfera di apparente serenità.

"Amici miei," disse, con tono grave, "vi ho invitati qui per chiedervi un favore. Fuori dalle mura c’è una banda di girovaghi. All’inizio sembravano innocui, ma ora causano problemi. Minacciano gli abitanti, chiedono vino e denaro, e lanciano maledizioni. Ho mandato le guardie, ma alcune di loro sembrano essersi schierate dalla loro parte."

I commensali rimasero in silenzio per un istante, ma la Duchessa proseguì: "Vi chiedo di portare loro un messaggio. Ditegli che, se non lasceranno le mura entro domani, i loro carri diventeranno cenere."

Seduti intorno al tavolo c’erano tre figure: un mezzelfo dal volto giovane e dai modi tranquilli, un panda antropomorfo dal sorriso curioso e un Goblin dallo sguardo torvo. Fu il panda a parlare per primo.

"Ehi, mezzelfo," disse, girandosi verso il suo vicino. "Anche tu sei un elfo? Da dove vieni? Sei qui per caso o ti hanno promesso qualcosa?"

L’altro, che si faceva chiamare Al, sollevò lo sguardo da un vecchio libro logoro. "Sono solo un mercante. Faccio piccoli affari... la Duchessa mi ha aiutato a concludere qualche vendita, e ora sono qui per un favore."

Il Goblin, che si faceva chiamare Jack Pot, sbuffò rumorosamente. "Io? Sono qui solo per colpa di quella maledetta strega. Le ho insegnato a giocare a carte, e ora mi tratta come spazzatura. Non posso più scommettere, non posso più toccare un soldo, e adesso ci manda pure a risolvere i suoi problemi!"

Improvvisamente, un piccolo drago di carta, simile a un origami, comparve svolazzando nella sala. Il panda lo fissò, confuso. "Che diavolo è? È roba tua?" chiese, rivolgendosi al Goblin.

"Non è roba mia!" sbottò Jack Pot. "Io maneggio solo carte, non queste... cose! Qualcuno lo prenda e lo distrugga!"

Al si alzò, afferrando il drago con un salto e tentando di esaminarlo con i suoi attrezzi. Ma appena lo toccò, il foglio si sgretolò e scomparve. La Duchessa, irritata, li richiamò all’ordine.

"Vi ho offerto una cena," disse con un tono tagliente. "Non potete almeno aiutarmi? Non vi chiedo molto."

"Oh, Duchessa," rispose il panda con la bocca piena, "che buona la zuppa! Ma... arriverà anche il secondo?"

"Sì, sì, il fagiano ripieno," rispose la donna con un sospiro. "Ma davvero, potete partire dopo cena."

"D’accordo, ma magari mi porto il fagiano da asporto," aggiunse il panda con un sorriso.

La Duchessa accettò con un cenno stanco, e un cameriere arrivò con un sacchetto contenente il fagiano. Nel frattempo, Al si era già alzato, pronto per partire. Jack Pot lo seguì, brontolando a mezza voce contro il cibo e la serata in generale. Il panda, con una forchetta nascosta nella zampa, li seguì soddisfatto, mentre la porta della sala si apriva sul vento freddo della notte.

L'accampamento

La notte era calata, e il gruppo, appesantito dalla cena abbondante, raggiunse le mura della città. Davanti a loro, una radura illuminata dal bagliore di un falò svelava una scena vivace: una decina di uomini e donne ridevano, cantavano e danzavano intorno al fuoco. Fiaschi di vino passavano di mano in mano, mentre tre carri dal tetto bombato, parcheggiati senza ordine, completavano il quadro. Poco distante, sei cavalli dai manti vivaci brucavano tranquilli l’erba illuminata dalle fiamme, i loro cappotti sgargianti spiccavano nel buio.

Un uomo anziano, minuto, con un pizzetto a punta e pochi capelli bianchi, si fece avanti. I suoi occhi furbi scrutavano il gruppo mentre faceva un profondo inchino, un gesto teatrale che accompagnava il suo sorriso enigmatico.

"Salve! Vi aspettavamo," disse con una voce calda. "Mi chiamo Statemir. Benvenuti al nostro accampamento. Come posso esservi utile?"

Al suo fianco c’erano una giovane donna, sua figlia Damia, e un uomo dal fare torvo, Rakta. Gli altri presenti, incuriositi, osservarono i nuovi arrivati in silenzio.

Al, il mezzelfo, parlò per primo. Con il suo consueto sorriso cordiale, tirò fuori un vecchio libro logoro e disse: "Siamo solo giovani commercianti di passaggio. Cercavamo un po’ di calore e riposo. Avete qualche mercante qui con cui possiamo scambiare qualcosa?"

Statemir scosse la testa, sorridendo. "No, no, noi non commerciamo. Siamo solo in attesa."

"In attesa di cosa?" chiese Al, incuriosito.

Statemir esitò, il sorriso immutato. "Di qualcuno. Non sappiamo se siete voi, ma stiamo aspettando."

Al inarcò un sopracciglio. "Dobbiamo essere preoccupati? Parla come se ci fosse qualcosa di imminente. Serve una mano?"

L’anziano rise di nuovo, scrollando le spalle. "Forse siete proprio voi le persone che stavamo aspettando. Non temete, non abbiamo intenzioni ostili. Sedetevi con noi. Volevamo solo raccontarvi una storia... Aspettiamo insieme l’alba."

A quel punto, Jack Pot sbottò con la sua tipica irruenza. "Stronzi! Maledetti! Vi aspettavate? Da chi, eh?! Io ve lo dico chi mi ha mandato! Quella dannata Duchessa! Mi ha detto di dirvi che, se non sparite, domani vi tira giù una palla di fuoco dal cielo che vi trapassa fino al culo! E io ho fatto il mio dovere! Fanculo a tutti!"

Le parole del Goblin furono accompagnate da qualche tic nervoso: un movimento improvviso della testa e un battito rapido della mano sul fianco. Il suo tono variava tra il furioso e il sarcastico, lasciando il gruppo un po’ perplesso ma abituato alle sue esplosioni.

Statemir, tuttavia, scoppiò in una risata fragorosa. "Ah, siete davvero voi le persone giuste! Non preoccupatevi della Duchessa. Non abbiamo intenzione di sfidarla. Noi... beh, siamo qui per raccontare e ascoltare storie. Sedetevi e rilassatevi."

Hamnon, il panda, osservò l’accampamento e si avvicinò a Statemir. "Posso sedermi? Avrei da finire un pasto..." Il suo sguardo curioso si posò sugli altri che stavano bevendo.

Statemir sorrise. "Prego, accomodati. Stanno bevendo, non mangiando."

Hamnon si avvicinò ai più robusti tra i presenti e si sedette con fare goffo. Tirò fuori il fagiano dalla sua sacca, offrendone un pezzo a destra e a sinistra. "Ne volete un po’?" chiese con la bocca piena.

I due risero, divertiti. "Non hai sentito il capo? Stiamo aspettando qualcuno. Altri quattro arriveranno prima dell’alba."

Hamnon annuì e continuò a mangiare, osservando i presenti. Erano tranquilli, pacifici, e non sembravano intenzionati a creare problemi. Intanto, Al si alzò per mescolarsi tra la folla, studiando gli uomini e le donne intorno al falò. Cercava qualcuno che potesse sembrare un mercante, ma non trovò nessuno con beni interessanti. Questi non erano commercianti: erano viaggiatori, in attesa, proprio come aveva detto Statemir.

Jack Pot, dopo aver borbottato qualche insulto e ticchettato nervosamente sul tavolo, si sedette accanto a Hamnon. "’Sto cibo fa schifo, ma tanto vale mangiare... Stronzi!" sbottò tra un boccone e l’altro.

L’accampamento rimase calmo, la notte avvolgeva tutto con il suo silenzio.

La prigione

La notte scorreva lenta nelle celle fredde e umide della prigione. Il buio avvolgeva tutto, interrotto solo dal debole scoppiettio delle torce che illuminavano il corridoio con una luce tremolante. Le grate delle porte lasciavano intravedere poco: solo pietra grezza, ombre e un paio di sgabelli vicino alla porta principale. Il silenzio era rotto a tratti da respiri affannati o da brevi conversazioni nervose. Le celle, allineate una accanto all’altra, ospitavano i quattro condannati, ognuno con il proprio destino avvolto nel mistero.

Luxenia, la maga dai modi fieri, ruppe il silenzio per prima. "Ma perché siamo qui?" sbottò, la voce carica di indignazione. "Non ci hanno nemmeno detto perché ci hanno arrestato! Io non ho fatto niente!"

Odrik Schettino, un nano chiassoso e incredibilmente egocentrico, rispose con il suo tono caratteristico: "Ah, allora non sono l’unico! Guardia! Ehi, guardia!"

Dal corridoio si sentirono passi pesanti avvicinarsi. Una figura robusta apparve oltre le grate. "Cosa vuoi, nano?" chiese con tono burbero.

"Ma perché sono qui? Non ho fatto nulla! Sono innocente!" protestò Odrik, aggrappandosi alle sbarre. "Io sono famosissimo! Da Boston a Los Angeles conoscono il mio nome!"

La guardia lo fissò, confusa. "Non so cosa siano questi... Stati, ma ora basta parlare."

"Come non lo sai? I Grammy, la TV... Mai sentito parlare di me?" insistette Odrik.

"Non ho idea di cosa tu stia dicendo," replicò la guardia, esasperata, prima di allontanarsi senza ulteriori spiegazioni.

Luxenia sbuffò, rivolgendosi con tono acido alla guardia ormai lontana: "Non sapete chi sono io! L’Accademia di Whiteron pretenderà spiegazioni per questa vostra incompetenza!" Ma la guardia si limitò a ignorarla, lasciando i prigionieri soli con le loro frustrazioni.

Lira, una giovane avventuriera pratica e silenziosa, osservava la scena in disparte. La sua cella, come le altre, era spoglia: un piatto con una zuppa fredda e un cucchiaio di legno erano le uniche cose che le avevano lasciato. Guardandosi intorno, notò che Odrik era già intento a tentare di usare il cucchiaio per scopi ben diversi dal mangiare.

Con una certa abilità, il nano spezzò il cucchiaio contro un mattone, cercando di levigarlo per renderlo uno strumento utile. Ma dopo pochi tentativi, il legno si spezzò. "Dannazione! Questo trucco funzionava sempre a Philadelphia!" borbottò tra sé e sé, lanciando i pezzi oltre la feritoia per nasconderli.

Luxenia lo fissò, curiosa. "Hai qualche idea migliore per farci uscire di qui?" chiese con un misto di sarcasmo e speranza.

"Ah, ci sto lavorando, ma mi serve qualcosa di più resistente!" rispose Odrik. "Non avete mica una forcina o... chessò, un coltello? Questo posto è ridicolo. Mi hanno messo al patibolo senza neanche lasciarmi il mio sassofono!"

Lira, scuotendo la testa, si limitò a lanciargli il suo cucchiaio. "Tieni, forse ti servirà meglio che a me."

"Grazie, ma non ho fame," replicò Odrik, lasciandolo cadere sul pavimento.

Mentre Luxenia e Odrik discutevano, un denso strato di nebbia cominciò a insinuarsi nel corridoio. Scivolava lenta, come un drago invisibile che alitava lungo i muri di pietra. L’aria si fece più fredda, e i suoni del martello che rimbombavano fuori dalla prigione divennero più nitidi. "Qui abbiamo finito," urlò una voce distante. "Domani mattina sarà un bello spettacolo!"

La nebbia continuava a strisciare, come dotata di vita propria, fino a dissolversi ai piedi delle celle. L’atmosfera era surreale, e anche il più scettico dei prigionieri si zittì, incerto su cosa aspettarsi. Poi, dal corridoio, una voce profonda e inquietante risuonò:

"Bene, bene siete qui..."

Odrik alzò lo sguardo verso l’oscurità. "Sei tu, Gesù?" chiese, senza un briciolo di ironia.